Il Lacus Curtius
Leggende di Roma segreta
Il fiume, già da qualche ora, aveva ripreso l'antico andamento verso la foce senza impigrire. Ancora pochi km a Ovest dal solco perimetrale, confine artificiale e rituale della nuova fondazione, e avrebbe ritrovato il mare.
Sopra le colline, con attenzione alle valli sconnesse, crocevia di mercanti, popoli migranti, guerrieri a cercare la sopravvivenza, famiglie e non pochi viaggiatori, stanchi pionieri del mondo allora conosciuto, raccoglievano i giorni, uno dopo l’altro. Come gli animali da cortile raccolgono semi e pagliuzze, beccando tra la polvere per scampare la cattiva sorte, e contando le notti ostili al freddo, soggiogate dalle forze della natura, in capanne di tufo e mattoni di paglia, scambiavano ancora in baratti i prodotti della terra per beneficiare del sale.
Quante altre volte il lento pancione fluviale, gonfio di fanghi, arbusti e argille si era comunque rilassato sconfinando tra quelle colline zuppe, intrecciate da rami e lupi, carni punte da mille e più zanzare, pascolanti greggi addomesticate, di pastori e contadini. E quante volte aveva già dettato le giornate invadendo le campagne, gli stretti percorsi sterrati, rubati ai prati, formando fossi, clivi e torrenti.
Anche quel giorno, Mettius Curtius, indossati i panni del soldato, a difesa dell’onore della sua gente, si precipitò in battaglia con fermezza e orgoglio. Sbilanciando più volte l’assetto sul ronzino, stava per cadere giù, proprio per colpa di quella terra amica e natia che invece, resa scivolosa e insicura, tormentata da pozze d’acqua, fangaglia, memoria dei temporali appena passati in sentieri mortificati da pianure paludose, instabili, cedeva sotto gli zoccoli dell’equino fumante già di affanni e sudore.
Mai poté immaginare, fottuto destino, l’umiliante imprevisto, e cavalcando il fedele destriero traumatizzò.
Ai piedi di quel colle, rifugio della sua gente, era in atto la cruda battaglia.
Ferri assordanti, urla minacciose, sangue, feriti e morti.
Da una parte i figli e i padri di una antica tribù originaria del colle Quirinale, stanziata tra il Campidoglio e la Sella, dall'altra famiglie appena costituite, padroni delle rocce di tufo del Septimontium, stanziali dei colli Cermano e Paladino e mogli, e mariti, e madri, e padri, figli, tutti, ugualmente vittime della storia. Entrambi padroni del loro destino ed entrambi futuri parenti. Questo quanto era in atto. Ab Urbe Condita.
Romolo, per non cedere ai rivali, ritirò momentaneamente la sua truppa dietro porta Mugonia, passaggio necessario, creato a mestiere per interrompere il sacro Pomerio e che invitava e permetteva, al residente palatino, di scendere giù dalla collina per conquistare il mondo.
Così parzialmente protetto invocò l’aiuto di Giove, che in quel luogo, per questo, divenne Statore, proprio mentre i Tizii erano già prossimi alla soglia, e con essa, alla vittoria.
Cosa avrebbe riservato il futuro? La storia sarebbe stata diversa? Altri simboli, altri re, forse nessun imperatore, nessun impero.
Il fatto leggendario vuole che “Curtio” il capo dell’esercito sabino, scontrandosi in battaglia, contro il valoroso Ostio Ostilio, quest’ultimo amico intimo e consigliere di Romolo, padre del futuro re Tullio, della famiglia dei Luceres, dunque ancora etruschi, (una delle tre grandi tribù fondatrici di Roma), riuscì ad ucciderlo.
L’accidente scatenò, nella fazione avversa, una frenesia di rivalsa e dolore.
La fine disastrosa che aveva colpito colui che, insieme alle antiche gens adepte al volere romuleo, era stato tra i fondatori dell’ambiziosa città posta sul colle Palatino, doveva essere immediatamente vendicata. Romolo accorse all'istante ma invano e menando minacciosi fendenti nell’aria ancor umida di pioggia e odorosa di uomini vinti dalle spade, di ferite doloranti, si diede all’inseguimento del generale sabino.
Curtius fuggì, veloce, spronò ancor di più il cavallo, saltò due o tre fossati, evitò altri duellanti ma nel campo di battaglia trovò una voragine ostile, che lo trascinò nel sottosuolo.
Il cavallo non fece in tempo a capire, ad evitare il mortale crepaccio e precipitò, senza via di scampo. Il valoroso soldato, come vuole un copione rigorosamente rituale, arcano e suggestivo ricevette però il regalo insperato. Gli Dei, proteggendolo prodigiosamente dalla sventurosa voragine e nascondendolo all’inseguimento di Romolo, gli salvarono la vita e lo consacrarono alla storia.
Tito Livio, negli Annales, si riserva di raccontare però anche una seconda versione.
Il crepaccio che si era creato la notte del grande temporale, continuava a falciare vittime, nascosto infingardo, tra i fanghi del Tevere esondato, se ne stava lì, proprio a lato della via Sacra, a ridosso del Volcanal e dei Rostra, e sembrava un essere animato, come quelle malefiche profezie tanto ostili ai romani ma monitorie. Una voragine viva e pensante che non voleva richiudersi malgrado a centinaia, i cittadini, avevano tentato di risanarla, gettandogli dentro quintali di terreno e altro materiale, inutilmente.
Nel 362 a. C. non avevi tante chance da valutare. Prendi la minestra o scegli la finestra e così accadde.
Una soluzione praticabile, da prendere in seria considerazione, era quella di rivolgersi agli esperti, che si sa, in ogni Era hanno sempre proliferato. In quel caso andava bene interpellare gli Auguri.
Inutile perdersi in altre stupide chiacchiere e azioni insignificanti, il verdetto è chiaro e perentorio: la voragine non smetterà di ingoiare la qualsiasi fino a quando non vi sarà sacrificata, e dunque gettata dentro, la cosa più importante e valorosa che possiede Roma.
I vecchi consiglieri si riunirono pensierosi, gran parte di loro proposero diverse soluzioni d’applicare ma di probabile insuccesso.
Ed ecco che dal cilindro della tradizione leggendaria della storia romana esce fuori il salvatore della Patria.
Avrà valutato bene, l’eroe, quale risonanza avrebbe ottenuto con il suo definitivo gesto?
Marco Curtius si propose. Si Curtio anche lui, della famiglia dei Curtii (leggi Curzi).
Perché dopo il ratto delle Sabine Roma è piena di Curtii. Una famiglia nobile e prosperosa, che vantava un illustre avo, quel famoso Curtius che aveva, circa quattrocento anni prima, combattuto contro il futuro parentado nelle storiche battaglie che susseguirono il ratto delle Sabine (appunto). Sabina la sorella, probabilmente Curtia, Ersilia che andò in sposa proprio a quell’ Hostio Hostilium descritto in precedenza, padre del primo figlio nato dall’unione tra i romani e le rapite, figlio che poi sarà il genitore del 3° illustre reggente della città.
Quell’avo protagonista fortunato, già precipitato nel Lacus, ma illeso.
Cosa c’è di più valoroso a Roma se non il valore stesso dell’audacia e del sacrificio dell’essere umano? Il valore che vogliamo dare alle cose non può di certo essere maggiore dell’abnegazione, del donare la propria esistenza per difendere la Patria.
Questo doveva essere il motivo di tanta ispirazione.
Tuttavia, è evidente che il mito dei Curtii vittime sfortunate, ovvero icone valorose che precipitano nella ferita terrestre, è una questione secolare, all’origine della storia romana.
Dunque, il prode Marco Curtio decise d’immolarsi e senza alcun indugio si lanciò nella fossa. Lui e il cavallo. Accompagnato da offerte votive dei romani, che quasi contemporaneamente, si prodigarono per riempire, con gettiti di primizie e fiori, la vescica tombale dell’eroe.
Non è leggenda che il luogo fu testimone altresì di forti speculazioni legate alla scaramanzia.
In seguito per i romani divenne usanza gettare nel pozzo, eretto successivamente a memoria dell’accaduto, desiderose monete. Come ancora oggi, in tanti luoghi monumentali, si usa fare per propiziarsi uno speranzoso desiderio difficile da realizzare.
A Fontana di Trevi, infatti è conosciuta usanza gettare monete nella vasca augurandosi di trovare nel tempo, modo e maniera per ritornare a visitare ancora la città. E tutti usano gettare monete dove si ha bisogno di sdebitarsi con la fortuna avuta nella vita: pagare il pizzo al destino che ci ha sorretto, proteggendoci dalla morte, fino a questo punto.
Negli anni passati, un personaggio di grande impatto emotivo e di grande successo dichiarò di discendere da quel valoroso romano che s’immolo gettandosi nel dirupo per salvare Roma. Il cognomen non mente: Il principe Antonio De Curtis.
Chissà perché nel 69 d. C., l’imperatore Galba venne giustiziato proprio nel foro romano a ridosso del Lacus Curtius.
Non può sfuggire a questa cronaca un terzo episodio legato alla voragine.
Nel 445 a. C. un fulmine, incredibile a dirsi, cadde fragorosamente nella palude che si era formata nella valle tra i colli, che poi diverrà successivamente il foro della città, a pochi passi dalla casa delle vestali, sacerdotesse custodi di fuochi perenni e del Palladium di troiana memoria, creando un burrone di smisurate dimensioni. Sembra che il destino di Roma sia circondato da buche che, malgrado lo sforzo dell’essere umano, si ripropongono ciclicamente.
Al risanamento del crepaccio venne incaricato, niente di meno, il Console C.Curtio (allora è un vizio) che lo recintò.
L’area monumentale è tutt’oggi visibile ai piedi del campidoglio.